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Cybersquatting e domain names: l'altro volto dell'e-commerce
Domenica 05 Agosto 2007
autore: Adriana Augenti Pochi giorni prima dell'uscita nelle sale cinematografiche americane del
lungometraggio animato che ritrae la vita della celebre famiglia Simpson, il
podcaster Keith Malley ha dovuto cedere il controllo del sito
thesimpsonmovie.com alla Twentieth Century Fox, la controllata di News
Corp, proprietaria del marchio.
La decisione, maturata in seno all'Organizzazione Mondiale per la Proprietà
Intellettuale (WIPO), non lascia dubbi: Keith Malley avrebbe registrato il
domain name col solo scopo di attirare i fans della famosa serie
animata su siti in cui pubblicizzava la vendita di prodotti legati al suo
podcast “Keith and the Girl”.
Secondo uno dei legali che ha seguito il caso, Malley – che pare abbia
rifiutato di difendersi – avrebbe anche manifestato l'intenzione di
vendere il domain name alla Twentieth per 50.000 dollari, proposta
rifiutata dalla compagnia cinematografica.
Quello che si suole definire cybersquatting o domain grabbing,
pratica illegale inesistente prima dell'avvento del Web, consiste proprio in
questo: la registrazione come nome a dominio di una marca nota o del marchio di
aziende leader sul mercato, senza esserne legittimato o senza averne il
benché minimo interesse fuorché quello di rivenderlo al suo
legittimo “proprietario”.
E' col diffondersi della rete Internet e delle pratiche di commercio che ad essa
fanno capo che il fenomeno di cui si discute ha riscontrato un crescente
interesse da parte di una cerchia sempre più ampia di speculatori.
Tra le potenzialità del commercio elettronico vi è infatti quella
di consentire al piccolo imprenditore locale di porsi in concorrenza anche con
il più grande a carattere nazionale ed internazionale, attraverso una
“vetrina virtuale” concessa ad un costo equivalente1 e fruibile da una
cerchia di consumatori indeterminabile tanto nella quantità quanto nella
qualità. È sufficiente farsi assegnare, attraverso una specifica
procedura, un indirizzo numerico identificativo di un server (unico leggibile a
livello macchina), associarvi un nome a dominio (che lo renda leggibile anche a
livello umano) e la vetrina virtuale potrà venire ad esistenza.
Nella realtà pratica il soggetto richiedente proporrà per la
registrazione un TLD, top level domain, quella parte situata all'estrema destra
dell'indirizzo letterale che fra le altre cose incide sulla legislazione a cui
il sito verrà sottoposto (si pensi ai TDL .it o .com o a quelli
espressamente riservati a particolari categorie2) e un SLD, second level
domain, cioè quella parte dell'indirizzo letterale che
identificherà proprio il “nome-sito”, il
“messaggio” per gli internauti.
Fino al 1999 non erano reperibili regole particolari sull'assegnazione di tali
“domini” nei confronti di chiunque ne facesse richiesta, col
risultato che, grazie al fenomeno di cui si discute, molte aziende si sono
ritrovate col proprio nome già “occupato”.
Ricordiamo la registrazione, ad opera di un giornalista americano del
Cybermagazine Wired, tale Quittner, del dominio mcdonalds.com.
All'epoca (parliamo di oltre 10 anni fa) la multinazionale ha dovuto pagare
circa 3000 dollari per poter usufruire di quel dato dominio, soldi che comunque,
avendo Quittner tentato più che altro un esperimento provocatorio e
dimostrativo, andarono in beneficenza.
I problemi maggiori sorgono anche in vista della, ancora oggi attuale, disputa
sulla natura giuridica dei nomi a dominio, disputa che ha comportato e comporta
una serie di difficoltà nella sua collocazione sistematica anche
all'interno del sistema della concorrenza e del mercato.
Si tende prevalentemente ad escludere la configurabilità di un diritto di
proprietà in capo ai domain name.
I nomi a dominio vengono assegnati in uso secondo regole generali stabilite a
livello internazionale dall'ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and
Numbers), ente no-profit il cui compito principale è quello della
risoluzione delle controversie concernenti i domain name, sia in sede
di assegnazione che sorte successivamente. E' nel 1999 infatti che l'ICANN ha
adottato l' “Uniform Domain Name Dispute Resolution Policy”, un
procedimento per la risoluzione dei contrasti3.
A livello nazionale, inoltre, esistono vari organismi cui spetta l'assegnazione
dei nomi a dominio. Tali soggetti sono diversamente strutturati a seconda del
Paese e si danno delle regole proprie che si ispirano a quelle dettate a livello
internazionale. In Italia l'assegnazione dei nomi a domino spetta alla
Naming Authority, un'associazione (con natura giuridica di associazione
non riconosciuta) che oltre ad avere un proprio statuto ha stabilito un
regolamento per l'assegnazione di cui si discute.
Regola principe dettata dall'ICANN è quella del first come, first
served, una sorta di criterio di priorità puramente cronologico.
Le regole per l'assegnazione dei nomi a dominio risentono della carenza di
un'indagine preventiva, dovendo le autorità abilitate controllare la
legittimità della richiesta di registrazione, che però niente ha a
che vedere con la verifica della corrispondenza di quest'ultima con le
generalità e gli elementi personali del soggetto richiedente (salvo
quanto detto in nota rispetto ai TLD riservati), e la correttezza della
procedura.
Vero è che tra le regole nazionali dettate dalla Naming
Authority è espressamente vietato il cosiddetto
cybersquatting4, ma (ovviamente) ciò non sembra essere
sufficiente.
A parte l'intuitivo problema del come delle regole dettate da un'associazione
non riconosciuta possano essere vincolanti per un qualsiasi soggetto determinato
a procedere alla registrazione, non va trascurata la possibilità, che
maggiormente ha dato modo al fenomeno di diffondersi, di trasferire i domain
names per accordo tra le parti.
Da questo breve quadro emerge quanto siano alti gli interessi in gioco,
considerata l'affidabilità riconosciuta al Web come mezzo per le
transazioni commerciali (sic!) e considerato quanto la pratica del
domain grabbing possa ulteriormente compromettere tale
affidabilità nei confronti del consumatore, alterando altresì le
regole della concorrenza e del mercato. Per sviare la clientela, ad esempio,
è molto più facile registrare un nome a dominio in violazione di
un marchio altrui piuttosto che un marchio vero e proprio!
Una pratica recente è inoltre quella delle aste dei nomi a dominio. Solo
nel primo trimestre del 2007 risultano registrati 128.000 nomi a dominio, circa
il 31% in più rispetto all'anno precedente5: un business stimato in circa 2
bilioni di dollari.
A titolo esemplificativo il domain creditcheck.com è stato
aggiudicato per 3 milioni di dollari, mentre sex.com, che come
domain name vanta nella sua storia anche un caso noto di
cybersquatting (il gestore abusivo dovette sborsare come risarcimento
del danno oltre 65 milioni di dollari), è stato venduto lo scorso anno
per 12 milioni di dollari.
Appare evidente il perchè la WIPO da qualche anno a questa parte abbia
iniziato a porre al fenomeno di cui si discute particolare attenzione:
“L'importanza strategica del domain name come segno di
riconoscimento nel commercio è in fortissimo aumento”
dichiarava l'agenzia qualche anno fa. “Il valore riconosciuto ai
marchi e agli altri segni distintivi e l'importanza che ha assunto Internet come
canale di comunicazione e scambio per il commercio turba a ragion veduta i
titolari di diritti, preoccupati che i loro segni distintivi cadano vittime di
pratiche ingannevoli ed abusive tramite Web” 6.
Proprio in occasione del caso Malley la Wipo ha reso noto che fino ad oggi sono
stati sottoposti al suo vaglio circa 10.500 casi di cybersquatting.
La gente guarda ormai i nomi a dominio come veri e propri beni. Pare siano
diventati dei beni immobili del Web che rappresentano per l'imprenditore un
interesse reale (nel grafico a seguire è visibile l'andamento della
registrazione di domini Internet nell'ultimo decennio, eloquente è
l'impennata subita negli ultimi anni).
A quanto pare i nomi a dominio, ancora sufficientemente carenti di
regolamentazione adeguata, stanno diventando il vero investimento del
ventunesimo secolo!
Adriana Augenti
per International Traders
[1] Sono esclusi da questa
considerazione i costi di realizzazione di siti più o meno complessi e ci
si riferisce esclusivamente alle pratiche di registrazione.
[2] Per cui si sarà anche soggetti a
verifica di appartenenza alle categorie in questione.
[3] Nello stesso anno il Congresso degli Stati
Uniti ha emanato una legge federale, per tanto valevole solo per i suoi
territori, denominata "Anticybersquatting Consumer Protection Act".
[4] Art. 1.2.2 lettera e) del
“Regolamento di assegnazione e gestione dei nomi a dominio nel ccTDL
“it” ” versione 5.0 del novembre 2006. Parimenti una regola
analoga la si riscontra anche nei regolamenti delle autorità nazionali di
altri paesi
[5] Dati VeriSign Inc.
[6] La ricerca di un bene determinato,
effettuata sul Web attraverso motori di ricerca, muoverà sovente dalla
digitazione del nome di un marchio rinomato, facilmente riconoscibile e
ricordabile dall'internauta, il quale riterrà - a torto o a ragione -
l'azienda cui fa capo il suddetto segno distintivo come la vera produttrice dei
beni ricercati. Per quanto detto nel presente lavoro emerge una discreta
facilità nello sviare attraverso un domain name “fasullo”
porzioni anche consistenti di clientela da un'azienda a un'altra e un desiderio
sempre maggiore di difendersi da questo genere di pratiche.
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